
Il destino delle terre abbandonate
01-09-2022
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“Sembra ovvio che questo sia il rischio più alto: veder sparire interi paesaggi in pochi mesi, rimpiazzati da muri di cemento, nuovi edifici, parcheggi. Le cose però stanno così solo in parte. Stanno così principalmente per i territori pianeggianti, cioè quelli dove l’edificazione e la produzione trovano meno ostacoli naturali. Tuttavia in Italia solo il 23,2% del territorio nazionale è, dal punto di vista orografico, considerato pianeggiante, mentre il restante 76,8% è montagnoso o collinare. Nei territori non pianeggianti “la maggiore concorrenza agli usi agricoli non viene dagli usi edificatori, ma è ancora quella dell’abbandono e dell’inselvatichimento”, scrive Mauro Varotto in Montagne di mezzo. Così, anche se può sembrare controintuitivo, negli ultimi vent’anni il processo geografico-territoriale più esteso non è stato l’edificazione – le cui ripercussioni ambientali sono fuori di dubbio e che continua la sua indefinita crescita e saturazione, con tutti gli enormi problemi che comporta – ma quello dell’abbandono, etimologicamente del ritorno della terra “al bando”.”
“La seconda è che si tratta di esperienze perlopiù agricole, e questo per una serie di motivi. Per prima cosa questi luoghi offrono un patrimonio di prodotti agricoli tradizionali quasi scomparsi, che possono essere recuperati per sé e il proprio mercato. In più negli spazi impervi, marginali e spesso lontani dai centri economici, produrre alimenti è il modo più semplice per avviare un’economia, di prossimità e non, perché non richiede la costruzione di grosse infrastrutture e l’investimento di grosse somme di capitale. È senz’altro auspicabile – anzi, con il COVID in molti hanno già preso questa strada – che anche chi non lavora con la terra, ma magari con pochi strumenti tecnologici, possa stabilirsi in queste zone contrastando l’abbandono.”
“Ma in cosa si differenziano le nuove e le vecchie esperienze di produzione agricola che sorgono sugli stessi territori? Per rispondere a questa domanda ho coinvolto Luca Martinelli, giornalista e scrittore che da anni segue da vicino numerose realtà di recupero e valorizzazione territoriale, in particolare attraverso l’alimentazione. “Credo che la differenza principale non stia nelle colture, che spesso sono le stesse”, mi spiega Martinelli, “quanto nell’idea di riuscire a costruire una relazione diretta tra produttore e consumatore, in grado di garantire un maggiore valore aggiunto a chi si dedica a produzioni di qualità, ambientale e sociale. Se 35 anni fa, quando ero piccolo, il mio vicino di casa faceva il giro per raccogliere il latte nelle stalle della collina, adesso quei pochi che ancora allevano vendono il formaggio, perché il latte non paga più. Queste aziende, come quelle di una volta, rimangono multifunzionali. Ad essere cambiato è il rapporto col mercato”. Si può parlare di una nuova consapevolezza della propria posizione all’interno della filiera, che indirizza le scelte aziendali verso nuove forme di sostenibilità, fondate tuttavia sulle medesime colture e, spesso, su processi produttivi simili.”
“Essere consapevoli del processo di abbandono di alcune vaste aree di terra e della conseguente disponibilità di uno spazio “libero”, può aggiungere un tassello importante alla percezione del nostro futuro, a cui oggi guardiamo con scarsa speranza, non senza ragioni. Le esperienze che ho riportato sono solo una manciata, ma appena si impugna la propria “lente” e la si punta su un territorio, magari quello in cui ci troviamo, ne saltano all’occhio una gran quantità. Si tratta di piccole utopie. Utopie non nel senso ironico (e paternalista) di contromovimenti destinati a perire sotto i colpi della realtà, ma nel senso benevolo di esperienze che nascono proprio in quei non-luoghi che stanno sparendo dalle mappe della globalizzazione.”