
Rappresentare/produrre lo spazio. Su Luca Vitone
28-04-2023
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“Nella serie di opere chiamate Carte atopiche, Luca Vitone realizza delle carte geografiche a cui sottrae i toponimi. Le carte sono realizzate tra il 1988 e il 1992, un periodo di “disambientamento storico e ontologico allo stesso tempo”, scrive Marco Scotini, in cui diventa necessario anche sotto il profilo metaforico cambiare la rappresentazione dello spazio europeo. La prima mostra personale dedicata a queste opere si tiene alla Galleria Paolo Vitolo di Milano nel 1993 e, in occasione della mostra, viene pubblicato un breve saggio del geografo genovese Massimo Quaini dal titolo Il mondo come rappresentazione. La rappresentazione in questione è quella cartografica, il dispositivo che l’opera di Vitone prima ancora che scardinare cerca di rendere visibile attraverso le sue Carte atopiche. Il risultato della sottrazione dei toponimi è un’immagine statica in cui rimane cristallizzato, e perciò appunto visibile, l’attimo in cui alla rappresentazione cartografica si sottrae il proprio fondamento.”
“In questo contesto il toponimo è l’unica cosa che ricollega la carta alla sua funzione iniziale, che non è quella del calcolo geometrico delle distanze ma la stabilizzazione di un percorso umano basato sulla concretezza dell’esperienza materiale[[4]](https://antinomie.it/index.php/2022/09/22/rappresentare-produrre-lo-spazio-su-luca-vitone/#_ftn4). Possiamo affermare che il toponimo sia l’unico elemento della mappa che è utile alla nostra esperienza concreta, il punto di contatto tra la rappresentazione geometrica e il fenomeno, ovvero quell’insieme di luoghi e corpi da cui è partito Aristotele (il cui approccio è stato definito appunto “fenomenologico”[[5]](https://antinomie.it/index.php/2022/09/22/rappresentare-produrre-lo-spazio-su-luca-vitone/#_ftn5)). Eliminando i toponimi si ottiene un cortocircuito tra il piano cartesiano che si nasconde dietro alla mappa e la relazione solo apparentemente iconica che essa intrattiene con il territorio che rappresenta.”
“E se Romanistan – la storia di un popolo che ha perso il proprio luogo – non è un luogo, allora è letteralmente un’u-topia in un senso diverso e per molti versi inusuale. Utopia è una parola legata più allo spazio che al tempo, l’isola battezzata con questo nome era contemporanea all’autore dell’opera e ai lettori. Non c’è traccia di progettazione politica nelle prime occorrenze letterarie della parola. L’unico tempo per l’utopia è quello contemporaneo e attuale, frutto di un percorso che non prevede tragitti. Come i naufraghi giunti a Utopia, ancheper “trovare” Romanistan è necessario naufragare, allontanarsi dalla topografia (dai colori, dalle linee, dalle rappresentazioni) e costituire un nuovo codice effimero.
Come? Attraverso la pratica utopica per eccellenza: fare spazio, creare zone libere dagli arché, aree spoliticizzate, anarchiche, intempestive, fragili. Delicate come l’equilibrio di un passo e l’esperienza di ciò che è invisibile, come ogni autentica manifestazione anarchica (o utopica) quando accade. E allora la consistenza ontologica di questo spazio – e per estensione di tutti gli spazi utopici – sta nell’accadimento. Se non c’è luogo, e quindi oggetti che perdurano nel tempo, tutto si riduce alla potenza dell’accadimento.”